Questa raccolta, pubblicata nel 1930, prende il nome dal racconto "Il dono di Natale", emblematico dello stile dell'autrice, che ama narrare ad adulti e bambini storie di vita quotidiana. La storia è raccontata nell’ingenuo linguaggio di un bambino. Riesce in tal modo ad evocare in pieno l’atmosfera natalizia e le emozioni che contraddistinguono la festività: la gioia dell’attesa, le aspettative per una lauta cena, la felicità per un futuro radioso. Con Il Dono di Natale, Grazia Deledda ci propone un piccolo assaggio delle tradizioni passate dell’isola. Un passato dedito alla pastorizia, i cui protagonisti erano perlopiù gente povera la cui vita era costellata di stenti e privazioni. Trovava tuttavia conforto nel calore familiare e nelle festività religiose. In particolare, affidava al Natale tutte le sue speranze per un domani migliore. L’intero racconto è costellato di piccoli gesti quotidiani e vige imperante, tanto nella casa di Felle quanto nella piccola abitazione di Lia, la gioia per il Natale. Come da promessa, al termine dei festeggiamenti sarà portato ad entrambi qualcosa per cui essere estremamente felici. Grazia Deledda nasce a Nuoro nel 1871, in una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Interrotti gli studi precocemente, la giovane Grazia approfondisce da autodidatta la sua passione per la letteratura, giungendo a pubblicare alcuni suoi racconti sulla rivista L´Ultima Moda, a soli 19 anni. Nel 1900 si trasferisce a Roma con il marito, conosciuto a Cagliari l´anno prima: rimarrà nella città fino alla morte, avvenuta nel 1936. E´ proprio nella capitale che i suoi capolavori vedono la luce: Elias Portolu (1903), Cenere (1904), L´Edera (1908), L´incendio nell´oliveto (1918), Il segreto di un uomo solitario (1914), Canne al vento (1913), Marianna Sirca (1915), Il Dio dei viventi (1922), e infine Cosima, pubblicato postumo. Ma è il 1926 a rappresentare una data significativa per la scrittrice, chiamata a ritirare il premio Nobel per la letteratura: Grazia Deledda, prima donna a ricevere tale onorificenza, fu premiata per la sua prosa idealisticamente ispirata che con chiarezza plastica dipinge la vita della sua isola nativa e con profondità e simpatia si confronta con i problemi umani in generale.
Jolanda, la figlia del Corsaro Nero è un romanzo scritto da Emilio Salgari, uno dei più importanti scrittori di avventure della letteratura italiana. Il libro, pubblicato per la prima volta nel 1905, racconta la storia di una giovane donna che viene rapita dal Corsaro Nero, un famoso pirata, e le sue avventure in mare e a terra. Jolanda è un personaggio coraggioso e determinato, che affronta le sfide della vita con forza e determinazione. La sua forza interiore e la sua intelligenza la aiutano a sopravvivere a molte peripezie e a trovare la felicità. Il Corsaro Nero, d'altra parte, è un personaggio controverso, un pirata che ha fatto la fortuna e la fama grazie alla sua audacia e alla sua crudeltà. Tuttavia, il romanzo mostra anche un altro lato di lui, un uomo che cerca la redenzione e che, alla fine, trova l'amore e la pace. Il libro è scritto in uno stile avvincente e coinvolgente, che trasporta il lettore in un mondo di avventure e di pericoli. La descrizione dei paesaggi e dei personaggi è molto vivida e dettagliata, rendendo il romanzo un'esperienza emozionante e immersiva. Si tratta di un libro che vale la pena di essere letto. Con la sua combinazione di avventura, romanticismo e suspense, offre un'esperienza unica e appassionante che rimarrà impressa nella memoria del lettore. Il romanzo è un classico della letteratura italiana che ha ispirato molte generazioni di lettori e che continua a essere amato e apprezzato ancora oggi. Emilio Salgari (1862-1911) è stato uno scrittore italiano di fama, considerato uno dei più importanti scrittori di avventure della letteratura italiana. Nacque a Verona e iniziò la sua carriera come giornalista, ma presto si dedicò alla scrittura di romanzi d'avventura. Tra le sue opere più famose ci sono "Le tigri di Mompracem", "Il Corsaro Nero", "Sandokan" e "Jolanda la figlia del Corsaro Nero". La sua scrittura è caratterizzata da uno stile appassionante e coinvolgente, e la sua abilità nella descrizione dei personaggi e dei paesaggi ha reso i suoi libri un'esperienza coinvolgente e appassionante. Emilio Salgari morì nel 1911, ma lasciò un'eredità duratura nella letteratura italiana e continua ad essere amato e apprezzato ancora oggi.
Remigio Selmi lascia l’impiego nelle ferrovie per accudire un podere nella campagna senese che ha ereditato dal padre. L’inesperienza e l’ostilità dei contadini, avidi e violenti per secolare povertà, rendono Remigio sempre più inetto e timoroso. I suoi sforzi per difendere una fortuna che sente in qualche modo immeritata si scontrano con l’astio della matrigna, con le pretese di una giovane serva, già amante del vecchio Selmi, che ora reclama la sua parte, con i debiti, i raggiri degli avvocati e persino con l’inclemenza del tempo. Una sorta di furia autodistruttiva lo spinge a desiderare di liberarsi della «roba», simbolo dell’autorità paterna da cui si sente oppresso. Sopraffatto da un sentimento di inadeguatezza, Remigio alla fine soccombe a un’esplosione di odio come una vittima sacrificale, un Giobbe laico che nelle prove alle quali è sottoposto non riconosce la presenza di Dio ma solo la forza di un destino avverso e ineluttabile. Federigo Tozzi nacque a Siena nel 1883 e morì a Roma nel 1920. La sua formazione culturale fu irregolare e perlopiù autodidatta. Fin da giovane ebbe un temperamento passionale che lo fece avvicinare alle teorie anarco-sindacaliste (1903). Successivamente si pronunciò per un cattolicesimo di decisa impronta mistica: ciò emerge chiaramente dall’epistolario dedicato alla futura moglie, raccolto sotto il nome di Novale (lettere dal 1906 al 1908). Federigo Tozzi si occupò sempre della sua amata Siena, a cui dedicò diversi scritti: Antologia d’antichi scrittori senesi (1913), Mascherate e strambotti della Congrega dei Rozzi di Siena (1915), Le cose più belle di Santa Caterina (1918). Tra i primi componimenti poetici si ricordano: La zampogna verde del 1911, di chiara impronta dannunziana, e il poema La città della vergine del 1913. Tozzi, con l’amico Domenico Giuliotti, prese parte al progetto della rivista «La Torre», portavoce di un cattolicesimo reazionario. Nel 1914 si trasferì a Roma dove collaborò con il «Messaggero della domenica» e conobbe alcune importanti personalità del mondo letterario, come Luigi Pirandello e Giuseppe Antonio Borgese. Federigo Tozzi cominciò qui a lavorare ai romanzi e alle novelle che gli diedero una discreta notorietà e per cui è annoverato tra le avanguardie della narrativa italiana del periodo. Con gli occhi chiusi ebbe una lunga genesi, come molte altre sue opere: fu iniziato nel 1913 ma edito solamente nel 1919. Tre croci vide le stampe tra il 1918 e il 1920. Postumi: Ricordi di un impiegato, Il podere, Gli egoisti. Tozzi fu anche autore di novelle e di teatro. La narrazione si svolge in un periodo storico imprecisato, ma vicino a quello in cui è stata scritta l’opera (1900-1915). I protagonisti sono Marianna Sirca, una giovane di origini modeste, arricchitasi dopo aver ereditato il patrimonio di un suo zio prete, ed il bandito Simone Sole. Marianna Sirca, orfana di madre, ancora bambina era stata mandata dal padre Berte a servizio da un ricco zio prete. Alla morte di quest’ultimo Marianna riceve una cospicua eredità. Così, sulla soglia dei trent’anni, si ritrova con alle spalle una giovinezza spenta e con la possibilità di decidere per il suo futuro. Quindi dà corso al suo amore da troppo tempo represso, in un giorno di giugno, rincontra un giovane, suo ex servo che ora è diventato bandito, Simone Sole. Nasce una grande passione. Ambedue i personaggi avevano da poco acquistato la loro libertà; quella di lei garantita dalla sua ricchezza, quella di Simone dal suo stare al di fuori dalla società (ma non contro), unico modo disponibile per affermare la propria personalità. Infatti Simone era diventato bandito per ribellione, per sottrarsi alla sua misera condizione, ma non era un sanguinario e da quando viveva alla macchia non si era macchiato di alcun grave delitto. Marianna sceglie di amare senza calcolo, decide così di sposare il bandito. Tuttavia ben presto dopo il divampare della passione subentra il senso della realtà, intervengono le ineludibili convenzioni sociali che richiedono il sacrificio del sogno. Infatti la condizione ineludibile perché il loro amore possa avere un futuro è che Simone dovrà costituirsi per scontare la sua pena. Marianna Sirca, dopo la morte di un suo ricco zio prete, del quale aveva ereditato il patrimonio, era andata a passare alcuni giorni in campagna, in una piccola casa colonica che possedeva nella Serra di Nuoro, in mezzo a boschi di soveri. Era di giugno. Marianna, sciupata dalla fatica della lunga assistenza d’infermiera prestata allo zio, morto di una paralisi durata due anni, pareva uscita di prigione, tanto era bianca, debole, sbalordita: e per conto suo non si sarebbe mossa né avrebbe dato retta al consiglio del dottore che le ordinava di andare a respirare un po’ d’aria pura, se il padre, che faceva il pastore ed era sempre stato una specie di servo del fratello prete, non fosse sceso apposta dalla Serra a prenderla, supplicandola con rispetto: — Marianna, dà retta a chi ti vuol bene. Obbedisci. Anche la serva, una Barbaricina rozza, risoluta, che era in casa del prete da anni ed anni ed aveva veduto crescere Marianna, le preparò la roba, gliela caricò rudemente dentro la bisaccia come fosse la roba di un servo pastore, e ripeté: — Marianna, dà retta a chi ti vuol bene: obbedisci. E Marianna aveva obbedito. Aveva obbedito sempre, fin da quando bambina era stata messa come un uccellino in gabbia nella casa dello zio, a spandere la gioia e la luce della sua fanciullezza attorno al melanconico sacerdote, in cambio della possibile eredità di lui. Grazia Deledda nasce a Nuoro nel 1871, in una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Interrotti gli studi precocemente, la giovane Grazia approfondisce da autodidatta la sua passione per la letteratura, giungendo a pubblicare alcuni suoi racconti sulla rivista L´Ultima Moda, a soli 19 anni. Nel 1900 si trasferisce a Roma con il marito, conosciuto a Cagliari l´anno prima: rimarrà nella città fino alla morte, avvenuta nel 1936. E´ proprio nella capitale che i suoi capolavori vedono la luce: Elias Portolu (1903), Cenere (1904), L´Edera (1908), L´incendio nell´oliveto (1918), Il segreto di un uomo solitario (1914), Canne al vento (1913), Marianna Sirca (1915), Il Dio dei viventi (1922), e infine Cosima, pubblicato postumo. Ma è il 1926 a rappresentare una data significativa per la scrittrice, chiamata a ritirare il premio Nobel per la letteratura: Grazia Deledda, prima donna a ricevere tale onorificenza, fu premiata per la sua prosa idealisticamente ispirata che con chiarezza plastica dipinge la vita della sua isola nativa e con profondità e simpatia si confronta con i problemi umani in generale. Storia di una capinera è un romanzo epistolare di Giovanni Verga. Fu scritto tra il giugno e il luglio 1869, durante il soggiorno dello scrittore a Firenze. Il 25 novembre 1869, tornato temporaneamente a Catania, Verga spedisce il romanzo a Francesco Dall'Ongaro, il quale ne rimase soddisfatto al punto da riuscire a farlo pubblicare dall'editore Lampugnani nella sua sede di Milano. Al 1871 risale, perciò, la prima pubblicazione ufficiale del romanzo, apparso dapprima all'interno della rivista di moda La ricamatrice e poi in volume. In realtà, però, il romanzo era stato già pubblicato nel 1870 a puntate su un'altra rivista del Lampugnani, ovvero il Corriere delle dame (anno LXVIII, dal numero 20 del 16 maggio 1870 al numero 34 del 22 agosto 1870), semplicemente con il titolo La capinera. La prima edizione del volume conteneva come prefazione la lettera con cui Dall'Ongaro aveva accompagnato l'invio dell'opera alla scrittrice Caterina Percoto, anche lei ferma sostenitrice del romanzo. Giovanni Verga (Catania 1840-1922) fu autore di novelle e romanzi, il cui stile e linguaggio hanno rinnovato profondamente la narrativa italiana: è considerato il più autorevole esponente del verismo. Raggiunse la notorietà con alcuni romanzi, Eva e Tigre reale (1873) e novelle (Nedda, 1874), nei quali espresse la sua predilezione per temi legati a diversi ambienti sociali e per il gusto per una scrittura asciutta e comunicativa. Tra il 1878 e il 1881 elaborò un progetto innovatore rispetto alle esperienze precedenti, quello di trasferire nei romanzi l'attenta osservazione del mondo circostante, ponendo l'accento sui desideri degli uomini e sul loro modo di parlare. Ne I Malavoglia (1881) Verga perfezionò una tecnica narrativa caratterizzata dall'uso del discorso indiretto libero, che permette di inserire nel racconto le voci e i punti di vista dei personaggi, le loro parole semplici e la loro grammatica elementare. In Mastro don Gesualdo (1889) rispetto allo stile corale de I Malavoglia, Verga raffigurò con distacco luoghi e paesaggi lividi e desolati, specchio della miseria umana che i personaggi del romanzo rappresentano. Avevo visto una capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell'azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare il rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi, le volevano bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di beccare tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l'ala e l'indomani fu trovata stecchita nella sua prigione. "Con gli occhi chiusi" tratteggia le inquietudini, i tormenti e le delusioni del giovane Pietro. La sua vita amara è segnata dal brutale rapporto con il padre Domenico, dalla grettezza e povertà degli operai che lavorano nel podere familiare di Poggio a' Meli e, soprattutto, dalle incertezze laceranti di un amore che mai appaga. Il giovane Pietro guarda ma non vede: i suoi occhi sono il sipario che volontariamente solleva o serra dinanzi alla realtà incomprensibile, ingestibile; sono l'unica difesa da una vita che disobbedisce alle illusioni, quando non si ha il coraggio e la forza di abitare, giorno per giorno, l'esistenza. Federigo Tozzi nacque a Siena nel 1883 e morì a Roma nel 1920. La sua formazione culturale fu irregolare e perlopiù autodidatta. Fin da giovane ebbe un temperamento passionale che lo fece avvicinare alle teorie anarco-sindacaliste (1903). Successivamente si pronunciò per un cattolicesimo di decisa impronta mistica: ciò emerge chiaramente dall’epistolario dedicato alla futura moglie, raccolto sotto il nome di Novale (lettere dal 1906 al 1908). Federigo Tozzi si occupò sempre della sua amata Siena, a cui dedicò diversi scritti: Antologia d’antichi scrittori senesi (1913), Mascherate e strambotti della Congrega dei Rozzi di Siena (1915), Le cose più belle di Santa Caterina (1918). Tra i primi componimenti poetici si ricordano: La zampogna verde del 1911, di chiara impronta dannunziana, e il poema La città della vergine del 1913. Tozzi, con l’amico Domenico Giuliotti, prese parte al progetto della rivista «La Torre», portavoce di un cattolicesimo reazionario. Nel 1914 si trasferì a Roma dove collaborò con il «Messaggero della domenica» e conobbe alcune importanti personalità del mondo letterario, come Luigi Pirandello e Giuseppe Antonio Borgese. Federigo Tozzi cominciò qui a lavorare ai romanzi e alle novelle che gli diedero una discreta notorietà e per cui è annoverato tra le avanguardie della narrativa italiana del periodo. Con gli occhi chiusi ebbe una lunga genesi, come molte altre sue opere: fu iniziato nel 1913 ma edito solamente nel 1919. Tre croci vide le stampe tra il 1918 e il 1920. Postumi: Ricordi di un impiegato, Il podere, Gli egoisti. Tozzi fu anche autore di novelle e di teatro. Usciti dalla trattoria i cuochi e i camerieri, Domenico Rosi, il padrone, rimase a contare in fretta, al lume di una candela che sgocciolava fitto, il denaro della giornata. Gli si strinsero le dita toccando due biglietti da cinquanta lire; e, prima di metterli nel portafoglio di cuoio giallo, li guardò un'altra volta, piegati; e soffiò su la fiammella avvicinandosi con la bocca. Se la candela non si fosse consumata troppo, avrebbe contato anche l'altro denaro nel cassetto della moglie; ma chiuse la porta, dandoci poi una ginocchiata forte per essere sicuro che aveva girato bene la chiave. Di casa stava dall'altra parte della strada, quasi dirimpetto. Ormai erano trent'anni di questa vita; ma ricordava sempre i primi guadagni, e gli piaceva alla fine d'ogni giorno sentire in fondo all'anima la carezza del passato: era come un bell'incasso. La sua trattoria! Qualche volta, parlandone, batteva su le pareti le mani aperte; per soddisfazione e per vanto. Restato contadino, benché avesse presto mutato mestiere, era capace di pigliare a pugni uno che non avesse avuto fede alla sua sincerità. E credeva che Dio, quasi per accontentarlo, avesse pensato, insieme con lui, alla sua fortuna. Del resto, sentiva la necessità di arricchire di più; per paura delle invidie. Quanti avrebbero fatto di tutto per rivederlo senza un soldo!Fai clic qui per effettuare modifiche. Mattia Pascal, timido provinciale, si allontana da casa dopo una delle solite liti con la moglie Romilda e la suocera Marianna Pescatore e, arrivato a Montecarlo, vince, giocando a caso, diverse decine di migliaia di lire. Il possesso di questa grossa somma e la lettura di una notizia di cronaca che annunzia la sua morte, (si tratta dell'erronea identificazione del cadavere di un disperato che s'è ucciso buttandosi in un pozzo) lo spingono a simulare davvero la morte, e a tentare di cominciare una nuova vita. Mattia Pascal diventa così Adriano Meis, e va a stabilirsi a Roma, in una curiosa pensione di famiglia, tenuta dal signor Anselmo Paleari e dalla figlia Adriana, ma dominata da un tale Terenzio Papiano, vedovo di un'altra figlia del Paleari, un furfante spregiudicato e pericoloso. Nella casa vivono anche un fratello di Terenzio, Scipione, mezzo epilettico e mezzo ladro, e una pensionante, Silvia Caporale, maestrina di musica. Sono questi i personaggi che cominciano a ricreare attorno a Mattia la vita sociale alla quale egli aveva pensato di sfuggire. Alla fine il protagonista, non potendo liberarsi altrimenti dalla nuova realtà cresciutagli intorno se non "morendo" di nuovo, decide di uccidere Adriano Meis e di riprendere la sua antica personalità di Mattia Pascal. Così ritorna al paese, trova la moglie sposata a un suo antico innamorato e con una figlioletta, si rifiuta di riprendere il suo posto nella vita civile e familiare, rimane il fu Mattia Pascal che ogni tanto si reca a visitare, fra la curiosità beffarda dei concittadini, la propria tomba. Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostrava d'aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: Luigi Pirandello (Girgenti, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936) è stato un drammaturgo, scrittore e poeta italiano, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1934. Per la sua produzione, le tematiche affrontate e l'innovazione del racconto teatrale è considerato tra i più importanti drammaturghi del XX secolo. Tra i suoi lavori spiccano diverse novelle e racconti brevi (in lingua italiana e siciliana) e circa quaranta drammi, l'ultimo dei quali incompleto. Tra le sue opere: Uno, nessuno e centomila (1925), Novelle per un anno (1922), Sei personaggi in cerca d'autore (1921), Enrico IV (1922), Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1916), Così è (se vi pare) (1918), “Le avventure di Pinocchio: storia di un burattino”, nasce come racconto settimanale sul “Giornale dei bambini” nel 1881. Nel 1883 viene raccolto in volume. Originariamente le avventure di Pinocchio si concludevano nell’episodio dell’impiccagione, con la morte del burattino. Le proteste dei piccoli lettori del “Giornale dei bambini” indussero però l’autore a proseguire il racconto, che si concluse definitivamente, con la trasformazione del burattino in bambino, nel 1883. Il capolavoro di Collodi è una storia di grande carica umana: le straordinarie peripezie del ragazzo-burattino, le scoperte ora gioiose ora dolenti che egli fa del mondo e della vita, i suoi scatti di ribellione e i suoi pentimenti, la sua ansia di giustizia, le sue speranze e i suoi crucci, si compongono in un racconto nitido che è da tempo giudicato un vero classico, che oltrepassa i confini della mera letteratura per l’infanzia.
C’era una volta... Carlo Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini (Firenze, 1826 – 1890), fu scrittore e giornalista, divenuto celebre in tutto il mondo come autore del romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, più noto come Pinocchio. In catalogo anche: I racconti delle fate è una raccolta di fiabe tradotte da Carlo Collodi per l’editore Paggi di Firenze, e pubblicata nel 1876 (nel 1875 Collodi ricevette da Paggi l’ordine di tradurre le fiabe pubblicate effettivamente l’anno successivo). Contiene l’adattamento italiano delle nove celebri fiabe di Charles Perrault contenute ne I racconti di mamma l’oca, insieme a quattro di Madame d’Aulnoye due di Madame Leprince de Beaumont. I racconti delle fate è una raccolta di fiabe tradotte da Carlo Collodi per l’editore Paggi di Firenze, e pubblicata nel 1876 (nel 1875 Collodi ricevette da Paggi l’ordine di tradurre le fiabe pubblicate effettivamente l’anno successivo). Contiene l’adattamento italiano delle nove celebri fiabe di Charles Perrault contenute ne I racconti di mamma l’oca, insieme a quattro di Madame d’Aulnoye due di Madame Leprince de Beaumont. Nel 1875 Collodi cominciò a tradurre dal francese le fiabe di Charles Perrault, il maestro di fiabe indimenticabili quali: Cappuccetto Rosso, La Bella addormentata nel bosco, Cenerentola, Barba-blu, Il Gatto con gli stivali, tanto per citarne qualcuna. A queste fiabe Collodi ne aggiunse altre delle maggiori favoleggiatrici francesi del XVII-XVIII secolo: Madame d’Aulnoy e Madame Le Prince de Beaumont. Egli però non si limitò a tradurre: colorì e vivificò il linguaggio un po’ ingessato degli originali, aggiungendo elementi di arguzia toscana e di spontaneità popolaresca. Fu il primo lavoro di Lorenzini per i ragazzi, ai quali dedicherà negli anni seguenti la maggior parte delle sue opere. Si trattò di traduzioni commissionate dall'editore Felice Paggi che, con la sua collana "Biblioteca Scolastica", intendeva fornire un adeguato ventaglio di titoli in buona lingua toscana per le scuole della neonata Italia unita. Carlo Collodi nasce a Firenze nel 1826 con il nome di Carlo Lorenzini: Collodi non è altro che il nome del paese di cui era originaria la madre (all’epoca il paese Collodi era in provincia di Lucca, a partire dal 1927 è in provincia di Pistoia). Abbracciando le idee mazziniane, partecipa alle rivolte risorgimentali del 1848-49. Appena venticinquenne esordì come giornalista descrivendo una realtà toscana spiritosa e bizzarra, fatta di intrighi e storielle da caffè per mezzo di fulminanti invenzioni linguistiche. Stimolato da questa esperienza esercita la sua capacità di dar vita, per mezzo della sua poetica, alle novità della vita contemporanea. Ne sono testimonianze i suoi romanzi Un romanzo in vapore, Da Firenze a Livorno (1856) in cui l’autore fu tra i primi a evidenziare la novità tecnologica apportata della ferrovia. Egli trova la sua vera strada quando, già avanti con l’età, si dedica alla letteratura per l’infanzia. Come funzionario al servizio dello stato unitario appena formato, inizia con la traduzione dei racconti delle fate di Perrault, per poi lavorare a vari libri pedagogici per la scuola. Dopo Giannettino (1875) e Minuzzolo (1877) scrive il suo capolavoro Le avventure di Pinocchio, che apparvero per la prima volta sul Giornale dei bambini nel 1881, con il titolo La storia di un burattino facendole terminare con il quindicesimo capitolo. Dopo pochi mesi Collodi riprese la narrazione del libro con il nuovo titolo per portarlo a termine nel 1883. Muore nel 1890 (Aonia edizioni). Claudio Cantelmo è l'ultimo discendente di una nobile e antica famiglia che in passato ha dato all'Italia condottieri e politici prestigiosi. Il ricordo di costoro unitamente al rigetto dei valori borghesi della società in cui è costretto a vivere, lo portano a concepire l'idea di generare un erede degno di tali illustri antenati mediante l'unione con una nobildonna di pari rango. Il rampollo dovrà portare a compimento l'«ideal tipo latino», imponendosi sulle plebi con la forza della volontà dominatrice e con gli attributi caratteriali e intellettuali che hanno fatto in passato la grandezza sia della famiglia paterna che materna. Il protagonista vuole pertanto generare una sorta di superuomo che riassuma in sé le caratteristiche più alte delle due stirpi da cui proviene. Restaurati i valori aristocratici di un tempo potrà porsi alla guida del suo popolo e condurlo verso mete sempre più alte divenendo egli stesso un novello "re di Roma". Abbandonata la corrotta capitale d'Italia, Claudio si trasferisce in un'appartata e indefinita località dell'ex Regno delle due Sicilie, dove ha trascorso l'infanzia e dove riallaccia i rapporti con una nobile famiglia del posto, anche se decaduta: i principi Capece-Montaga, che vivono in un palazzo in sfacelo, nel culto ossessivo del passato borbonico, e con due dei loro membri sconvolti dalla follia. Claudio si sente subito attratto dalle tre figlie del principe: Violante, la maggiore, bella, altera, sensuale, Massimilla, pura e sensibile, ma in procinto di prendere i voti, Anatolia, depositaria dei valori familiari che con abnegazione si occupa della madre demente e del fratello, Antonello, psichicamente instabile e perturbato. Il protagonista è consapevole che una delle tre sorelle sarà la madre dell'erede intellettualmente superdotato che egli desidera generare, ma non sa decidersi: ognuna di esse possiede infatti virtù e caratteristiche uniche che potrebbero essere trasmesse alla discendenza. Alla fine la scelta cade su Anatolia, che non senza rammarico rifiuterà la proposta di matrimonio per poter continuare ad assistere la vecchia madre demente, il fratello psicolabile e il vecchio padre. Anatolia stessa, tuttavia, spinge Claudio a prendere in considerazione, come futura consorte, sua sorella Violante, non solo perché è la primogenita, ma anche perché degna del suo amore. Non ci è dato sapere se Claudio, seguendo il suggerimento di Anatolia, sceglierà Violante, anche perché Qui finisce il libro delle vergini e incomincia il libro della Grazia. Lo snodo della vicenda infatti, avrebbe dovuto aver luogo nel secondo romanzo della trilogia progettata da D'Annunzio e mai portata a compimento. Io vidi con questi occhi mortali in breve tempo schiudersi e splendere e poi sfiorire e l'una dopo l'altra perire tre anime senza pari: le più belle e le più ardenti e le più misere che sieno mai apparse nell'estrema discendenza d'una razza imperiosa. Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1 marzo 1938) è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo, militare, politico, giornalista e patriota italiano, simbolo del Decadentismo e celebre figura della prima guerra mondiale. Soprannominato “il Vate”, cioè “poeta sacro, profeta”, cantore dell’Italia umbertina occupò una posizione preminente nella letteratura italiana dal 1889 al 1910 circa e nella vita politica dal 1914 al 1924. È stato definito «eccezionale e ultimo interprete della più duratura tradizione poetica italiana e come politico lasciò un segno nella sua epoca e un’influenza sugli eventi che gli sarebbero succeduti. Tra le sue opere da noi edite ricordiamo: Il fuoco, Le novelle della Pescara, L'innocente, Giovanni Episcopo. |
Collane
All
|