Flora, in un periodo particolare della sua vita, decide di partire per la Provenza per realizzare un sogno che da tempo custodisce nei suoi pensieri. Qui incontrerà persone gentili con le quali potrà condividere un progetto artistico e storie di vita, ma un evento drammatico metterà in crisi la decisione di rimanere in Provenza e la spingerà a desiderare di tornare nella terra d’origine. Il sostegno di una persona cara sarà importante e Flora potrà continuare a vendere emozioni, veicolate da oli essenziali e fiori di lavanda, nella sua una bottega nella Piazza dei Papi di Avignone. Un viaggio, nei luoghi della Provenza, nei ricordi della terra di origine, nelle tradizioni nuove e antiche, nei pensieri e nei sentimenti, accompagna Flora nel nuovo tempo della sua vita, in un lento divenire che si sublima in una nuvola di fiori di ginestre e lavanda. Filomena Lo Sasso è nata e vive a Potenza. È un medico con la passione della scrittura. Laureata in Medicina e Chirurgia, specializzata in Pneumologia. Come dirigente medico di igiene e sanità pubblica ha lavorato presso l’Azienda Sanitaria di Potenza ed è stata referente di molti programmi di promozione della salute. Ha conseguito un master in Fitoterapia applicata e nel 2021 entrata a far parte della Società Italiana di Fitoterapia. È responsabile del settore Narrativa e felicità del Gruppo Italiano Felicità (GIF) e Salute Positiva. Ha fatto parte di giurie in concorsi letterari di narrativa e di poesie. Autrice di molti racconti, ha partecipato a numerosi concorsi letterari nazionali ed internazionali. I suoi racconti sono stati pubblicati in diverse antologie. È risultata fra i vincitori del Premio Nazionale di Poesia e Narrativa Alda Merini nell’edizione del 2020 e nell’edizione del 2022. Ha ricevuto la Menzione d’onore nel Premio Letterario Internazionale I fiori sull’acqua, edizione 2022. Finalista nel concorso letterario Tutte le donne del mondo, del 2022 di Nona Edizioni, con un racconto pubblicato nell’omonima antologia. Finalista nel premio letterario Splendida Matera edizione 2022, con un racconto.
Il testo "Il segreto dell'infanzia" di Maria Montessori presenta la sua visione dell'inizio della vita e dell'educazione dei bambini. Montessori sostiene che i bambini hanno una naturale tendenza all'apprendimento e che l'educazione deve rispettare, proteggere e sostenere questa tendenza attraverso un ambiente di apprendimento accogliente e stimolante. Nel libro, Montessori descrive il neonato come un "embrione spirituale" che ha bisogno di condizioni favorevoli per svilupparsi al meglio. L'obiettivo è quello di aiutare il bambino a costruire relazioni positive, autonomia, autostima, fiducia e competenza, che saranno le basi per il suo futuro sviluppo. Montessori sostiene che il bambino stesso sa meglio di chiunque altro come poter essere aiutato e che la sua guida è la chiave per un'educazione di successo. Maria Montessori è stata una pedagogista e medico italiano nota per il suo "Metodo Montessori". Nata nel 1870, ha condotto ricerche sulle tendenze naturali di apprendimento dei bambini e ha sviluppato una serie di strumenti educativi e materiali didattici per supportare queste tendenze. Il suo lavoro ha ispirato molte altre filosofie pedagogiche e ha contribuito a cambiare la percezione dell'educazione dei bambini. Montessori è morta nel 1952, ma il suo metodo continua a essere largamente utilizzato e rispettato in tutto il mondo.
Jolanda, la figlia del Corsaro Nero è un romanzo scritto da Emilio Salgari, uno dei più importanti scrittori di avventure della letteratura italiana. Il libro, pubblicato per la prima volta nel 1905, racconta la storia di una giovane donna che viene rapita dal Corsaro Nero, un famoso pirata, e le sue avventure in mare e a terra. Jolanda è un personaggio coraggioso e determinato, che affronta le sfide della vita con forza e determinazione. La sua forza interiore e la sua intelligenza la aiutano a sopravvivere a molte peripezie e a trovare la felicità. Il Corsaro Nero, d'altra parte, è un personaggio controverso, un pirata che ha fatto la fortuna e la fama grazie alla sua audacia e alla sua crudeltà. Tuttavia, il romanzo mostra anche un altro lato di lui, un uomo che cerca la redenzione e che, alla fine, trova l'amore e la pace. Il libro è scritto in uno stile avvincente e coinvolgente, che trasporta il lettore in un mondo di avventure e di pericoli. La descrizione dei paesaggi e dei personaggi è molto vivida e dettagliata, rendendo il romanzo un'esperienza emozionante e immersiva. Si tratta di un libro che vale la pena di essere letto. Con la sua combinazione di avventura, romanticismo e suspense, offre un'esperienza unica e appassionante che rimarrà impressa nella memoria del lettore. Il romanzo è un classico della letteratura italiana che ha ispirato molte generazioni di lettori e che continua a essere amato e apprezzato ancora oggi. Emilio Salgari (1862-1911) è stato uno scrittore italiano di fama, considerato uno dei più importanti scrittori di avventure della letteratura italiana. Nacque a Verona e iniziò la sua carriera come giornalista, ma presto si dedicò alla scrittura di romanzi d'avventura. Tra le sue opere più famose ci sono "Le tigri di Mompracem", "Il Corsaro Nero", "Sandokan" e "Jolanda la figlia del Corsaro Nero". La sua scrittura è caratterizzata da uno stile appassionante e coinvolgente, e la sua abilità nella descrizione dei personaggi e dei paesaggi ha reso i suoi libri un'esperienza coinvolgente e appassionante. Emilio Salgari morì nel 1911, ma lasciò un'eredità duratura nella letteratura italiana e continua ad essere amato e apprezzato ancora oggi.
"Dei delitti e delle pene" è un saggio scritto da Cesare Beccaria nel 1764 che esplora la natura dei delitti e delle pene in uso all'epoca. Beccaria propone un approccio illuminista alla questione, sostenendo che le leggi e le pene devono essere riformate per rendere la società più giusta ed equa. Egli sostiene che le pene devono avere un effetto deterrente sui crimini e devono essere proporzionali al crimine commesso. Egli sostiene anche che le pene devono essere utilizzate per riabilitare i criminali, invece di semplicemente punirli. Il saggio ha avuto un'ampia influenza sulla pensiero giuridico e politico, sia in Italia che in Europa e America. Cesare Beccaria è stato un giurista e filosofo italiano del Settecento, noto per il suo contributo alla riforma del sistema penale. Nato a Milano nel 1738 e morto nel 1794, ha studiato giurisprudenza all'Università di Pavia e ha iniziato la sua carriera come avvocato, ma ha presto abbandonato questa professione per dedicarsi alla scrittura e alla filosofia. Ha fatto parte di un gruppo di intellettuali illuminati a Milano (Accademia dei Pugni) e ha lavorato per promuovere idee di progresso e di uguaglianza sociale. Il suo lavoro più importante è stato il saggio "Dei delitti e delle pene", pubblicato nel 1764, in cui criticava la crudeltà e la disumanità della pena di morte e della tortura, e proponeva un sistema di punizione basato sulla rieducazione e sulla prevenzione del crimine. Il suo lavoro ha contribuito a far cambiare l'opinione pubblica su questi temi e ha influenzato le riforme giuridiche in tutta Europa e in America.
Myricae è la prima raccolta di poesia di Pascoli e rappresenta in modo esauriente e completo tutta la poetica pascoliana, che attraverso le varie edizioni, dalle 22 iniziali, giunge al numero finale di 156 componimenti. In questa raccolta il poeta canta temi familiari e campestri, le piccole cose di tutti i giorni, gli affetti più intimi, riprendendo l’atmosfera delle Bucoliche di Virgilio dove il mondo campestre è cantato e idealizzato. Giovanni Pascoli (1855-1912) è una figura centrale della cultura italiana tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Fu poeta di grande successo, professore universitario, autore di saggi e critico letterario. La sua poesia unisce la raffigurazione del mondo naturale e contadino e una grande carica umanitaria. Con la sua ricerca linguistica audacemente sperimentale, Pascoli aprì la strada alla Novecento. Con la raccolta Myricae, la poesia italiana sembra scrollarsi di dosso le incrostazioni della tradizione per far riemergere le cose, la natura, fino ai più umili animali e alle più piccole piante, come se fossero stati appena scoperti dall'occhio umano.
Questo è il primo di tre volumi dedicati ai culti isiaci nell’Africa romana. Basata principalmente sull’analisi dei reperti epigrafici e archeologici rinvenuti nell’Africa proconsolare, questa ricerca ripercorre in principio la storia degli studi condotti su questo tema a partire dagli inizi del XX secolo per arrivare a quelli più recenti e in parte ancora in corso. Fra tutte le località emerge Cartagine, capitale della provincia nella quale i culti isiaci ebbero un buon seguito in particolare nel II secolo d.C. Lo studio mette in evidenza il ruolo che alcune famiglie ebbero localmente nello sviluppo delle pratiche religiose isiache. Alla presentazione dei singoli documenti sono dedicate le schede del catalogo. Il volume, arricchito da una Presentazione di Laurent Bricault, si inserisce nel binario degli Études préliminaires aux religions orientales dans l’Empire romain con l’intento di colmare in parte la lacuna riguardante le province africane tenendo però ben presente la filosofia degli studi isiaci contemporanei. Alberto Gavini è Dottore di ricerca in Il mediterraneo in età classica, storia e culture (Università degli Studi di Sassari). Già docente a contratto presso l’Università degli Studi di Sassari con gli insegnamenti di Archeologia e topografia dell’Africa romana e Archeologia classica, è membro della Missione archeologica italiana a Thignica (Tunisia) nell’ambito della quale si sta occupando della riedizione delle dediche a Saturno.
Il fortuito ritrovamento di un’opera tardo manierista nel mercato antiquario italiano porta ad ipotizzare, in assenza di firma e documentazione diretta, un’attribuzione stilistica all’artista fiorentino Bartolomeo Gorini (detto “Baccio”), spostatosi nei primi anni del XVII secolo in Sardegna, a Sassari, divenendo uno dei principali artisti del territorio e formatore della successiva generazione di pittori del nord ovest dell’isola. Nel volume si ricostruisce la possibile storia della nascita e committenza dell’opera. Alessandro Ponzeletti vive e lavora a Sassari, dove è nato nel 1978. Laureatosi a Sassari in Lettere - Indirizzo moderno, ha conseguito a Cagliari la Specializzazione alla Scuola di Studi Sardi, nell'Indirizzo artistico-archeologico. È docente di Storia dell’Arte Moderna presso l’Accademia di Belle Arti “Mario Sironi” di Sassari. È autore di libri e di vari contributi in progetti editoriali di livello territoriale e regionale. Come collaboratore per 5 anni ha tenuto la rubrica “Memento” nella cronaca di Sassari de La Nuova Sardegna. Come consulente esterno collabora a progetti promossi da Enti pubblici. Collabora con Studi professionali di progettazione, con Ditte di restauro e con Associazioni culturali per l'arte e la storia. Come relatore ha partecipato a convegni d'ambito storico e storico-artistico. Remigio Selmi lascia l’impiego nelle ferrovie per accudire un podere nella campagna senese che ha ereditato dal padre. L’inesperienza e l’ostilità dei contadini, avidi e violenti per secolare povertà, rendono Remigio sempre più inetto e timoroso. I suoi sforzi per difendere una fortuna che sente in qualche modo immeritata si scontrano con l’astio della matrigna, con le pretese di una giovane serva, già amante del vecchio Selmi, che ora reclama la sua parte, con i debiti, i raggiri degli avvocati e persino con l’inclemenza del tempo. Una sorta di furia autodistruttiva lo spinge a desiderare di liberarsi della «roba», simbolo dell’autorità paterna da cui si sente oppresso. Sopraffatto da un sentimento di inadeguatezza, Remigio alla fine soccombe a un’esplosione di odio come una vittima sacrificale, un Giobbe laico che nelle prove alle quali è sottoposto non riconosce la presenza di Dio ma solo la forza di un destino avverso e ineluttabile. ![]() Federigo Tozzi nacque a Siena nel 1883 e morì a Roma nel 1920. La sua formazione culturale fu irregolare e perlopiù autodidatta. Fin da giovane ebbe un temperamento passionale che lo fece avvicinare alle teorie anarco-sindacaliste (1903). Successivamente si pronunciò per un cattolicesimo di decisa impronta mistica: ciò emerge chiaramente dall’epistolario dedicato alla futura moglie, raccolto sotto il nome di Novale (lettere dal 1906 al 1908). Federigo Tozzi si occupò sempre della sua amata Siena, a cui dedicò diversi scritti: Antologia d’antichi scrittori senesi (1913), Mascherate e strambotti della Congrega dei Rozzi di Siena (1915), Le cose più belle di Santa Caterina (1918). Tra i primi componimenti poetici si ricordano: La zampogna verde del 1911, di chiara impronta dannunziana, e il poema La città della vergine del 1913. Tozzi, con l’amico Domenico Giuliotti, prese parte al progetto della rivista «La Torre», portavoce di un cattolicesimo reazionario. Nel 1914 si trasferì a Roma dove collaborò con il «Messaggero della domenica» e conobbe alcune importanti personalità del mondo letterario, come Luigi Pirandello e Giuseppe Antonio Borgese. Federigo Tozzi cominciò qui a lavorare ai romanzi e alle novelle che gli diedero una discreta notorietà e per cui è annoverato tra le avanguardie della narrativa italiana del periodo. Con gli occhi chiusi ebbe una lunga genesi, come molte altre sue opere: fu iniziato nel 1913 ma edito solamente nel 1919. Tre croci vide le stampe tra il 1918 e il 1920. Postumi: Ricordi di un impiegato, Il podere, Gli egoisti. Tozzi fu anche autore di novelle e di teatro. La narrazione si svolge in un periodo storico imprecisato, ma vicino a quello in cui è stata scritta l’opera (1900-1915). I protagonisti sono Marianna Sirca, una giovane di origini modeste, arricchitasi dopo aver ereditato il patrimonio di un suo zio prete, ed il bandito Simone Sole. Marianna Sirca, orfana di madre, ancora bambina era stata mandata dal padre Berte a servizio da un ricco zio prete. Alla morte di quest’ultimo Marianna riceve una cospicua eredità. Così, sulla soglia dei trent’anni, si ritrova con alle spalle una giovinezza spenta e con la possibilità di decidere per il suo futuro. Quindi dà corso al suo amore da troppo tempo represso, in un giorno di giugno, rincontra un giovane, suo ex servo che ora è diventato bandito, Simone Sole. Nasce una grande passione. Ambedue i personaggi avevano da poco acquistato la loro libertà; quella di lei garantita dalla sua ricchezza, quella di Simone dal suo stare al di fuori dalla società (ma non contro), unico modo disponibile per affermare la propria personalità. Infatti Simone era diventato bandito per ribellione, per sottrarsi alla sua misera condizione, ma non era un sanguinario e da quando viveva alla macchia non si era macchiato di alcun grave delitto. Marianna sceglie di amare senza calcolo, decide così di sposare il bandito. Tuttavia ben presto dopo il divampare della passione subentra il senso della realtà, intervengono le ineludibili convenzioni sociali che richiedono il sacrificio del sogno. Infatti la condizione ineludibile perché il loro amore possa avere un futuro è che Simone dovrà costituirsi per scontare la sua pena. Marianna Sirca, dopo la morte di un suo ricco zio prete, del quale aveva ereditato il patrimonio, era andata a passare alcuni giorni in campagna, in una piccola casa colonica che possedeva nella Serra di Nuoro, in mezzo a boschi di soveri. Era di giugno. Marianna, sciupata dalla fatica della lunga assistenza d’infermiera prestata allo zio, morto di una paralisi durata due anni, pareva uscita di prigione, tanto era bianca, debole, sbalordita: e per conto suo non si sarebbe mossa né avrebbe dato retta al consiglio del dottore che le ordinava di andare a respirare un po’ d’aria pura, se il padre, che faceva il pastore ed era sempre stato una specie di servo del fratello prete, non fosse sceso apposta dalla Serra a prenderla, supplicandola con rispetto: — Marianna, dà retta a chi ti vuol bene. Obbedisci. Anche la serva, una Barbaricina rozza, risoluta, che era in casa del prete da anni ed anni ed aveva veduto crescere Marianna, le preparò la roba, gliela caricò rudemente dentro la bisaccia come fosse la roba di un servo pastore, e ripeté: — Marianna, dà retta a chi ti vuol bene: obbedisci. E Marianna aveva obbedito. Aveva obbedito sempre, fin da quando bambina era stata messa come un uccellino in gabbia nella casa dello zio, a spandere la gioia e la luce della sua fanciullezza attorno al melanconico sacerdote, in cambio della possibile eredità di lui. ![]() Grazia Deledda nasce a Nuoro nel 1871, in una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Interrotti gli studi precocemente, la giovane Grazia approfondisce da autodidatta la sua passione per la letteratura, giungendo a pubblicare alcuni suoi racconti sulla rivista L´Ultima Moda, a soli 19 anni. Nel 1900 si trasferisce a Roma con il marito, conosciuto a Cagliari l´anno prima: rimarrà nella città fino alla morte, avvenuta nel 1936. E´ proprio nella capitale che i suoi capolavori vedono la luce: Elias Portolu (1903), Cenere (1904), L´Edera (1908), L´incendio nell´oliveto (1918), Il segreto di un uomo solitario (1914), Canne al vento (1913), Marianna Sirca (1915), Il Dio dei viventi (1922), e infine Cosima, pubblicato postumo. Ma è il 1926 a rappresentare una data significativa per la scrittrice, chiamata a ritirare il premio Nobel per la letteratura: Grazia Deledda, prima donna a ricevere tale onorificenza, fu premiata per la sua prosa idealisticamente ispirata che con chiarezza plastica dipinge la vita della sua isola nativa e con profondità e simpatia si confronta con i problemi umani in generale. Storia di una capinera è un romanzo epistolare di Giovanni Verga. Fu scritto tra il giugno e il luglio 1869, durante il soggiorno dello scrittore a Firenze. Il 25 novembre 1869, tornato temporaneamente a Catania, Verga spedisce il romanzo a Francesco Dall'Ongaro, il quale ne rimase soddisfatto al punto da riuscire a farlo pubblicare dall'editore Lampugnani nella sua sede di Milano. Al 1871 risale, perciò, la prima pubblicazione ufficiale del romanzo, apparso dapprima all'interno della rivista di moda La ricamatrice e poi in volume. In realtà, però, il romanzo era stato già pubblicato nel 1870 a puntate su un'altra rivista del Lampugnani, ovvero il Corriere delle dame (anno LXVIII, dal numero 20 del 16 maggio 1870 al numero 34 del 22 agosto 1870), semplicemente con il titolo La capinera. La prima edizione del volume conteneva come prefazione la lettera con cui Dall'Ongaro aveva accompagnato l'invio dell'opera alla scrittrice Caterina Percoto, anche lei ferma sostenitrice del romanzo. ![]() Giovanni Verga (Catania 1840-1922) fu autore di novelle e romanzi, il cui stile e linguaggio hanno rinnovato profondamente la narrativa italiana: è considerato il più autorevole esponente del verismo. Raggiunse la notorietà con alcuni romanzi, Eva e Tigre reale (1873) e novelle (Nedda, 1874), nei quali espresse la sua predilezione per temi legati a diversi ambienti sociali e per il gusto per una scrittura asciutta e comunicativa. Tra il 1878 e il 1881 elaborò un progetto innovatore rispetto alle esperienze precedenti, quello di trasferire nei romanzi l'attenta osservazione del mondo circostante, ponendo l'accento sui desideri degli uomini e sul loro modo di parlare. Ne I Malavoglia (1881) Verga perfezionò una tecnica narrativa caratterizzata dall'uso del discorso indiretto libero, che permette di inserire nel racconto le voci e i punti di vista dei personaggi, le loro parole semplici e la loro grammatica elementare. In Mastro don Gesualdo (1889) rispetto allo stile corale de I Malavoglia, Verga raffigurò con distacco luoghi e paesaggi lividi e desolati, specchio della miseria umana che i personaggi del romanzo rappresentano. Avevo visto una capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell'azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare il rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi, le volevano bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di beccare tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l'ala e l'indomani fu trovata stecchita nella sua prigione. |
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